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La sentenza della Cassazione che può restituire la dignità ai migranti

Le condizioni dell’allora CIE (Centro identificazione ed espulsione) a Bari nel 2012 costituiscono offesa all’identità della città.

BARI – Gli attuali CPR (Centri per il rimpatrio), quelli per cui il governo Meloni – con decreto legge n.124, appena entrato in vigore – vuole aumentarne il numero in tutta Italia (dagli attuali 8 fino ad uno per ogni regione) e la durata della permanenza al suo interno (da 6 a 18 mesi), costituiscono quindi, anche alla luce di questa sentenza (n. 26901/2023), centri di una permanenza che, di fatto, è una detenzione amministrativa.

Una sentenza che può costituire un precedente (salvo conferma della Corte d’Appello a cui il procedimento è stato rinviato) affinchè i Comuni interessati (Enti territoriali che attualmente sono i più “coinvolti” nel sistema dell’accoglienza) possano agire per tutelare la loro “immagine”, ovvero la loro “identità”, fatta (secondo lo Statuto della città pugliese ed in ossequio ai principi costituzionali) di “valori umanistici e solidaristici”.

Il ricorso fu presentato da due “privati”, gli avvocati Giovanni Paccione e Alessio Carlucci, contro quelle che erano vere e proprie “condizioni di trattenimento di oggettiva intollerabilità” in particolare del CIE di Bari. Da cui, in quegli anni, numerose rivolte al suo interno e scioperi della fame.

Le condizioni degradanti, all’interno dei CPR, sono state anche denunciate da diversi servizi giornalistici. In particolare quello della trasmissione televisiva di “Striscia la notizia”, che aveva rilevato un’indiscriminata assunzione di farmaci da parte dei migranti nel Centro di Palazzo San Gervasio, in Basilicata.

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