editoriali – da giugno 2015 a gennaio 2018

La fine delle ideologie e la crisi della “grand coalition”

Di Giampiero Calia – 17 gennaio 2018

 

Le ultime elezioni tedesche hanno confermato, se mai ce ne fosse stato bisogno, due tendenze, una più “antica”, l’altra più recente: la fine della tradizionale ed “ideologica” dicotomia destra/sinistra e la crisi (almeno in Europa) del modello governativo della “grande coalizione”.

In Germania, infatti, pur avendo vinto (di misura), alle elezioni politiche dello scorso settembre, il partito (CDU) del cancelliere uscente, Anghela Merkel, è riuscito, solo a distanza di ben quattro mesi, l’11 gennaio scorso, a formare un governo (con l’appoggio dei social – democratici di Martin Shultz). Nella stessa Spagna,il governo si è formato solo ad ottobre 2016 dopo ben due chiamate alle urne (la prima a dicembre 2015, la seconda a giugno 2016).

La prima tendenza, solo da poco consolidata, ha a che fare però con la fine delle ideologie, quindi con la caduta del muro di Berlino, e con la fine dei grandi e tradizionali partiti di massa; la seconda con la continua frammentazione delle formazioni politiche (e la conseguente nascita di nuovi partiti o sigle) e con l’avanzata del c.d. “populismo”.

Quindi proprio i modelli di “grande coalizione” (o come altri dicono, di “governo allargato” o di “governo di responsabilità), che negli ultimi anni si sono avuti, in particolare, in Germania, in Spagna ed in Italia, sono andati in crisi (anche se non è detto che non possano riproporsi, ad esempio in Italia, per le prossime elezioni del 4 marzo, c’è già chi parla di un Gentiloni bis, con appoggio esterno, o di un nuovo Governo a conduzione Pd-Forza Italia).

A resistere è il governo di coalizione che si è formato in Grecia all’indomani della vittoria, per la seconda volta alle elezioni del settembre 2015 (dopo quelle di gennaio dello stesso anno), del partito “Syriza” di Aleander Tsipras.

Oggi dunque il modello che pare essere più stabile  è quello francese, quello di Macron e della sua formazione politica (La République en marce). Un modello che ha sbaragliato sia i due tradizionali partiti francesi e che ha arginato l’avanzata populista e xenofoba della destra di Le Pen.

 

Ma se avesse vinto il “si” al referendum del 2016 ci sarebbe stato questo “pasticcio” del Rosatellum?

Di Giampiero Calia – 17 ottobre 2017

 

Discussa, votata e approvata (lo scorso 12 ottobre) alla Camera la proposta di legge elettorale “Rosatellum 2” (che prevede l’assegnazione dei seggi per i 2/3 con il proporzionale ed 1/3 con il maggioritario), ora attende l’esame del Senato.

La proposta di legge prevede collegi uninominali (nelle diverse circoscrizioni viene eletto un solo candidato per lista) per l’assegnazione dei seggi con il maggioritario e liste “bloccate” (il voto dell’elettore può essere espresso solo per il candidato indicato dal partito) per quelli assegnati invece con il proporzionale; non è previsto, inoltre, alcun voto disgiunto (il voto al candidato va alla lista di riferimento senza possibilità di votare un’altra lista) e vi è, infine, una soglia di sbarramento al 3%.

Approvata con voto di fiducia ed a scrutinio segreto, il “Rosatellum 2” ha fatto molto discutere soprattutto per le proteste (anche con manifestazioni di piazza) di m5s e sinistra alternativa al PD, contrari sia alla legge che alla decisione del Governo di mettere la fiducia (anche il presidente emerito Giorgio Napolitano si è espresso in questo senso).

Una proposta di legge che è stata scritta per amalgamare il sistema elettorale tra Camera e Senato, squilibrato dall’Italicum (come modificato dall’intervento della Consulta). Ed è per correggere la vigente legge elettorale che il PD ha promosso la normativa denominata Rosatellum 2 (dal nome appunto del suo promotore). Il precedente testo della legge, su cui le parti non avevano trovato l’accordo prevedeva invece un sistema elettorale alla “tedesca” (misto ma con prevalenza dei seggi ottenuti con assegnazione tramite maggioritario)

Una legge, quella approvata alla Camera, che sembra non favorire il m5s (che infatti è contrario) e che invece al contrario favorisce le alleanze tra partiti. Alleanza che, già prima della votazione in aula, si era già rotta, a sinistra del PD, tra MDP e Pisapia (che avevano stretto un accordo preelettorale).

La proposta di legge alla Camera è passata con il voto favorevole di circa 370 deputati (tra PD, Area, Alternativa popolare, Forza Italia e Lega nord con Salvini), quello contrario di circa 200 (di SI, MDP, M5S e Fratelli d’Italia) e con circa cinquanta “franchi tiratori”.

Nell’area PD, diversi i commenti sul Rosatellum 2. Tra chi ha dichiarato che “il m5s non è in grado di presentare candidati che abbiano un rapporto copn il territorio” a chi (lo scrittore, ex senatore, Gianrico Carofiglio) invece ha detto  che “l’attuale legge elettorale (ed il rimpallo istituzionale per la sua approvazione) è il frutto della mancata approvazione della riforma con il referendum costituzionale dello scorso anno (Italicum e riforma del Senato erano legati nella loro formulazione)”.

Walter Veltroni, infine, alla festa per i dieci anni dalla nascita del PD, ha commentato: “il PD è nato con vocazione maggioritaria in un’ottica dell’alternanza, sarebbe un errore un’alleanza programmatica con Berlusconi”

 

Le sirene della notorietà a Palazzo di Giustizia

di Giampiero Calia – 27/06/2017

La recente inchiesta Consip ha riportato alla ribalta il problema delle “carriere”, tentate o riuscite, di alcuni giudici.

Henry John Woodcock nonostante non abbia mai tentato la carriera politica deve la sua “notorietà” ad alcune inchieste “eccellenti” (ricordiamo, ad esempio, quella nei confronti di Vittorio Emanuele di Savoia, conclusasi con un’assoluzione perché il fatto non sussiste), ultima quella che ha portato su tutte le prime pagine dei giornali il nome di Tiziano Renzi, padre dell’ex premier, indagato in base ad un errore di trascrizione di alcune intercettazioni di un suo stretto collaboratore. Per tale motivo presso il CSM è stato aperto un fascicolo per  trasferimento per incompatibilità ambientale nei confronti del procuratore (prima in forza alla Procura di Potenza e poi a quella di Napoli).

Sempre a sud di Roma, altre procure hanno tentato inchieste piuttosto “pretestuose”: la procura di Trani che, da ultimo, ha indagato su alcune agenzie di rating (come Standard and poor’s) ed il cui procedimento si è concluso con l’assoluzione per gli imputati e dimostrando (nei confronti della difesa) una scarsa competenza ad affrontare una materia come quella finanziaria; la procura di Potenza con le inchieste “ad orologeria” che hanno coinvolto il governo Renzi e determinato le dimissioni dell’allora ministro allo sviluppo economica, Federica Guida (per il procedimento a carico del compagno è stata poi chiesta l’archiviazione); ed infine la procura di Catania, con il “caso”, sollevato dal procuratore Zuccaro, su presunti coinvolgimenti di alcune ONG con i trafficanti di esseri umani.

Tramite la “notorietà” delle inchieste giudiziarie, diversi magistrati italiani hanno poi costruito (con o senza successo) vere e proprie carriere: in principio fu Antonio Di Pietro (giudice del pool “mani pulite” che successivamente alla “stagione dei veleni” intraprese la carriera politica, fondando il partito de “L’Italia dei valori”) e poi Luigi De Magistris (trasferito da Catanzaro per le inchieste “Why not?” e poi diventato sindaco di Napoli) o, infine, Antonio Ingroia che, prima di tentare la carriera politica (senza successo) e di diventare poi manager pubblico in una società pubblica siciliana (e per il cui incarico è finito egli stesso sotto inchiesta della magistratura), era in forza alla procura di Caltanissetta (la stessa che ha dato avvio all’indagine sulla “trattativa Stato – mafia”).

Vi è infine, nel nostro Paese, il c.d. sistema delle “porte girevoli” che consente il passaggio, senza soluzione di continuità,  dalla carriera di magistrato a quella del politico e viceversa. Ed è questo un problema sollevato sia a livello nazionale (se ne è occupato ultimamente il CSM relativamente al governatore della Puglia, Michele Emiliano) che internazionale (“Greco”, l’organo anticorruzione del Consiglio d’Europa, ha rilevato nella sua ultima relazione annuale come il caso dell’Italia sia anomalo essendo infatti l’unico Paese – insieme all’Olanda – ad avere un sistema per cui un magistrato può tranquillamente passare dalla carriera giudiziaria a quella politica).

POLITICA/ITALIA

L’italia e il sistema proporzionale: ritorno al passato?

di Giampiero Calia – 22 marzo 2017

Il sistema politico italiano, inteso quale struttura impostata sulla rappresentatività dei partiti, è di nuovo in movimento.  Due i maggiori recenti “scossoni”: la pronuncia della corte Costituzionale (e la nuova conseguente discussione) sulla legge elettorale e la recente scissione del maggior partito italiano, il PD.

Dopo un recente passato in cui la soluzione maggioritaria sembrava essere quella più rispondente ai criteri di un moderno Paese democratico, all’orizzonte si profila invece uno scenario  con diverse formazioni politiche in campo. Molto discussa, all’ultima assemblea PD, la questione della leadership (dopo le dimissioni di Renzi), che invece per le altre formazioni rimane centrale (quanto meno per Movimento cinque stelle e Lega, con le figure dei loro “capi”, Grillo e Salvini; laddove invece Berlusconi rimane figura di riferimento ma solo all’interno di Forza Italia, avendo perso, con la disgregazione del Popolo delle Libertà la leadership dell’area di centro-destra) .

Molto della politica nazionale sembra ruotare intorno al Partito democratico (se è vero che comunque rimane il partito di Governo), con un Renzi dimissionario ed in vista delle prossime primarie.

Alla sinistra del Pd cercano una propria identità almeno tre distinte formazioni (Sinistra italiana, la neonata formazione dei “DP – democratici e progressisti –“ ed il “satellite” di Pisapia che comunque aggrega un certo consenso).

Per quanto riguarda poi lo “schieramento” di destra, tra i due maggiori partiti, Lega e Forza Italia, sembra non esserci più quel collante che legava il Popolo della Libertà (come anche a sinistra c’è chi ha parlato di “xilella” che ha distrutto l’esperienza dell’Ulivo) mentre quello che un tempo era Alleanza Nazionale ora è frammentato in diversi partiti (Fratelli d’Italia, destra sovranista, ecc.). NCD (che ha cambiato nome in “Alternativa popolare”) e altri si collocano invece in un “centro” moderato. C’è infine il pianeta Movimento 5 stelle che alla prova di governo (almeno nelle amministrazioni in cui ne sono stati eletti degli esponenti) è alle prese con contrastanti risultati. Allo stato attuale l’Italia risulta uno dei Paesi con il maggior numero di partiti e/o formazioni politiche in Parlamento (sono circa venti le diverse sigle, molte delle quali raggruppate nel Gruppo misto).

Ed in un mondo in cui le ideologie cadono (sostituite dal populismo da una parte e dalla “dittatura della finanza” dall’altra), a parte il “risiko” della composizione parlamentare in attesa di una legge elettorale che quanto meno uniformi le discipline di Camera e Senato (tra i partiti che al momento hanno il maggior consenso, Pd e M5s sono le uniche due formazioni che, in teoria,  possono cercano quel 40% che in base alla legge elettorale vigente consentirebbe loro di poter governare da soli, mentre Lega e Forza Italia, per sperare di poter ottenere lo stesso risultato avrebbero necessità di un’alleanza pre-elettorale), all’orizzonte (dopo la bocciatura delle riforme renziane, che comunque hanno rappresentato una visione, condivisa o meno, “politica”) non si intravedono idee o proposte a lungo raggio (degne di essere considerate politiche, nel senso più alto del termine, come prospettiva, disegno, visione, di un futuro migliore).

 

Matera, il modello urbanistico tra pianificazione e speculazione.

di Giampiero Calia – 16 febbraio 2017

<<Piazza della Visitazione dovrà diventare il parco centrale della città e per assicurare una migliore vivibilità parola d’ordine sarà “no al cemento”>>.  Così il sindaco in carica della città di Matera in un comizio pubblico dello scorso novembre. ll riferimento è ad una piazza per cui negli anni passati era stato indetto un concorso di idee vinto dall’archistar spagnolo Tomàs Llavador.

Si tratta in realtà di un piazzale per gli arrivi e le partenze di autobus che in seguito alla visita di Papa Giovanni Paolo II (nel 1991) ha preso l’attuale denominazione e tra destinazione di terminal bus e quella (quale è attualmente) di parcheggio si è discusso, e ancora si discute (tanto da aver organizzato, lo scorso 9 febbraio, un incontro pubblico a cura dell’associazione “Adriano Olivetti” per discuterne con professionisti del settore, architetti ed ingegneri, e con almeno quattro sindaci della città – dal ’91 ad oggi -) di farne un parco cittadino.

Ma mentre si discute di riqualificazione urbanistica, in città “spuntano” opere (più private che pubbliche, che rispondono cioè sempre più a interessi economici privati piuttosto che ad interessi pubblici collettivi) che mettono in discussione una pianificazione che in un “piccolo” centro, come quello di Matera, è addirittura ricostruibile nei suoi tratti essenziali almeno dagli anni ’50 ad oggi. Ma mentre nel dopoguerra la pianificazione urbanistica non trovava ostacoli sulla sua strada (anche per l’intervento e l’interessamento del Governo – fu De Gasperi infatti a volere lo spopolamento dei Sassi, vergogna nazionale – ), con il passare dei decenni i costruttori locali hanno avuto sempre più vita facile nella realizzazione di opere edili (in deroga gli strumenti urbanistici o per l’approvazione di varianti urbanistiche) anche per l’accondiscendenza di amministratori e politici locali.

 

Cosa rimane dell’Italicum dopo la sentenza della Corte Costituzionale?

di Giampiero Calia – 25 gennaio 2017 – 

Dieci sono stati i quesiti proposti innanzi alla Consulta. Di questi, otto sono stati sostanzialmente rigettati e due invece parzialmente accolti. In particolare la legge (predisposta dal governo Renzi per la sola Camera) mantiene le soglie di sbarramento al 3% ed il premio di maggioranza per il partito che raggiunge almeno il 40% dei voti; mentre per la vera novità introdotta dal precedente Governo, ossia il ballottaggio (in caso di mancata elezione al primo turno) tra le due formazioni più votate, questa non è stata accolta.

Alla luce della sentenza del 25 gennaio scorso, quindi, ed in attesa delle motivazioni della stessa (trenta giorni per depositarle), la legge elettorale immediatamente applicabile (come la stessa Corte ha dichiarato) per entrambi i rami del Parlamento è un mix tra Italicum e Mattarellum. Rendere omogenea questa normativa è dunque il compito del legislatore in questa fase.

Sulla data delle prossime elezioni si sono scatenate già all’indomani del referendum dello scorso dicembre ridda di dichiarazioni e conseguenti interpretazioni da parte dei mass media. Solo suggestioni appiono,  al momento, le ipotesi  di alleanze Pd – Forza Italia o Lega – M5s come una sorta di bipolarismo (ciò che sembra essere tendenza anche a livello globale nei Paesi Occidentali) tra establishment e antiestablishment tra populismi e antipopulismi. Ma per avere  una più chiara definizione della legge elettorale e degli schieramenti in campo bisogna attendere quanto meno la fissazione di una data certa per le elezioni (a meno che non si vada a scadenza naturale della legislatura) e quindi capire come si posizionano effettivamente le diverse forze politiche in campo.

 

Il Governo Renzi (ascesa e declino) e quello Gentiloni ( la continuità, le questioni aperte, le sfide)

di Giampiero Calia – 14 dicembre 2016

Analizzando il voto del referendum del 4 dicembre, come ha fatto il quotidiano La Repubblica del 12/12/2016, si può notare come di circa il 60% dei votanti (quelli del no), la gran parte è rappresentata dagli strati sociali più deboli, dai giovani e dai residenti nel sud Italia.

Quello che sembra in declino, visto l’avanzarsi del voto di protesta, del populismo, in Italia come in America, in Inghilterra come in certi Paesi dell’est Europa, sembra essere un modello politico, quello social democratico, che non rappresenta più le frustrazioni, la rabbia, i desideri degli strati sociali più popolari.

Renzi con il suo programma di Riforme (anche per come lo ha proposto) si è attirato il malcontento popolare cavalcato da forze politiche che vanno dall’estrema sinistra all’estrema destra (attraverso i due partiti che maggiormente attirano tali strati, M5S e lega nord) e l’ostracismo di diverse lobby (sindacati, istituzioni, ecc.

Il nuovo Governo Gentiloni (il terzo della diciassettesima legislatura) ha già annunciato che prenderà in considerazione tale “nuovo” quadro sociologico.

Per quanto riguarda Renzi, il suo Governo aveva il suo impianto (innestato dal presidente della Repubblica emerito, Giorgio Napolitano) proprio nelle riforme, non solo quelle costituzionali bocciate dal referendum, ma anche quelle fatte passare con leggi ordinarie: il “jobs act”, la “buona scuola”, parte della riforma della giustizia, la riforma della pubblica amministrazione, ecc.

Insomma un programma attuato in parte con provvedimenti andati in porto, altri rimasti in discussione in Parlamento, altri in pendenza di giudizio presso la Corte Costituzionale (come la legge elettorale “Italicum”).

Al  governo Gentiloni dunque il compito di portare a termine il programma di una legislatura che in molti, prima delle elezioni del 2013, definirono costituente, ossia una legislatura che avrebbe dovuto sancire la nascita di una terza Repubblica, chiudendo definitivamente i conti con la stagione del consociativismo da prima repubblica e con quella rappresentata dal dualismo “berlusconismo” – “antiberlusconismo” della seconda. Una legislatura  che insomma avrebbe dovuto finalmente avviare una fase nuova contraddistinta da un sistema “moderno” (quello del bipolarismo?quello di un sistema elettorale maggioritario? quello del presidenzialismo?). Ma queste ultime consultazioni referendarie stanno lì a dimostrare la difficoltà, soprattutto in un Paese come l’Italia, di cambiare delle Istituzioni in cui in molti, a torto o a ragione, si identificano (o si sono identificati con l’ultimo voto referendario).  Oggi  sono in molti a ritenere che da questo punto di vista ci sia stato, con l’esito del referendum, e ci sia, con il dibattito sulla legge elettorale, come un ritorno ovvero una voglia di prima repubblica.

 

 

Renzi, la questione morale e la selezione della classe dirigente: in particolare la Lucania 

di Giampiero Calia – Maggio/giugno ’16

Il rapporto di Renzi con la Basilicata è di fondamentale importanza per l’Italia tutta, ed egli stesso pare saperlo se è vero che ha rimandato una visita, attesa e prevista dallo scorso gennaio (dopo che lo scorso autunno erano sono stati resi noti i dati dello Svimez su un Italia ancora a doppia velocità e che hanno dato l’abbrivio al master plan per il sud), concretizzatasi solo il due maggio scorso. E ciò per la duplice veste che Renzi ricopre come segretario del pd (la madre di tutte le sue battaglie politiche è la c.d. “rottamazione” e la Basilicata, come noto, è  feudo storico del primo, Massimo D’Alema, e dell’ultimo, Piero Lacorazza, dei rottamati) e come premier (due partite fondamentali si giocano in questo lembo di terra: una che riguarda, nel caso particolare, la competenza in materia energetico/ambientale dello Stato – e quindi la gestione amministrativa delle estrazioni petrolifere – in materia di riforma del titolo V della Costituzione; e l’altra che attiene direttamente alla politica industriale del Paese, nel caso dello stabilimento Fiat di Melfi).

Come segretario del pd, ma anche come premier (nei casi, ad esempio, dei due ex ministri Lupi e Guidi), ciò che da più parti gli viene mosso è quella che può dirsi la “gestione delle risorse umane” o meglio, come hanno fatto notare ultimamente autorevoli osservatori, la selezione della classe dirigente.

Il caso lucano, da quest’ultimo punto di vista, è un unicum, poiché pressoché tutta la classe dirigente del pd è figlia di un particolare e determinato contesto: quello del ventennio della contrapposizione berlusconiani – antiberlusconiani, quello del vero ed unico governatore della Basilicata, Massimo D’Alema. Dagli ultimi due ex presidenti di Regione, attualmente con incarichi di Governo, Filippo Bubbico e Vito De Filippo, a quello attuale, Marcello Pittella; dall’oppositore interno Roberto Speranza (dimissionario da capogruppo Pd alla Camera) all’ultimo dei rottamati Piero Lacorazza (ex presidente del consiglio regionale, uno dei più attivi promotori del referendum “no triv”); dall’ex sindaco di Matera, Salvatore Adduce, al suo “factotum” Roberto Cifarelli (dimissionario dalla carica di capogruppo Pd in Regione).

 

Italia, un paese commissariato – di Giampiero Calia

Febbraio ’16

Prima Giuseppe Sala, commissario unico dell’Expo milanese, poi Raffaele Cantone a capo dell’Autorità Nazionale Anticorruzione ed ancora, più di recente, Francesco Paolo Tronca commissario prefettizio al Comune di Roma. Tre figure “istituzionali” chiamate a contrastare il fenomeno della corruzione: il primo guidando, prima della sua recente candidatura a sindaco della città di Milano, tutto il carrozzone di Expo (dopo l’inchiesta giudiziaria del maggio 2014 che ha coinvolto i vertici di alcune delle società interessate alla gestione dell’Expo milanese), il secondo (magistrato) un ufficio istituito ad hoc ed entrato in funzione proprio in concomitanza con lo “scandalo” Expo ed il terzo la città di Roma come commissario straordinario (nella stessa Roma poi, è stato nominato Franco Gabrielli come commissario per il Giubileo, e all’interno del maggior partito italiano, il PD, Matteo Orfini per quanto riguarda il pd cittadino in seguito ai fatti do “mafia capitale”).

Insomma, fil rouge che ha legato quest’ondata anomala di commissariamenti è proprio la corruzione nella gestione della cosa pubblica (in riferimento soprattutto all’uso “privato” della P.A, che si sostanzia poi, in materia giudiziaria, in fattispecie sia penali – c.d. reati della Pubblica Amministrazione – che amministrative – irregolarità nella gestione dei bandi pubblici, ecc.)

Un Paese, l’Italia, che sembra avere sempre più bisogno di “controllori” per funzionare. Paradigmatico il “caso” Berlusconi: sono stati infatti Presidente della Repubblica e magistratura (per Costituzione organi dello Stato con poteri di controllo e garanzia) ad eliminare quella che era un’anomalia tutta italiana, quella del conflitto d’interessi di Berlusconi presidente del Consiglio e quella dei guai giudiziari del Berlusconi senatore.

Roma e Milano, le due più importanti città italiane che, dopo essere state investite dalle inchieste degli appalti Expo e di mafia capitale, hanno reagito in modo diverso: secondo Raffele Cantone, infatti, Milano ha dimostrato di possedere gli anticorpi soprattutto per il lavoro fatto da Sala e dalla giunta meneghina guidata da Pisapia; Roma invece è stata un crogiuolo di malaffare e criminalità che ha finito per travolgere lo stesso sindaco Marino.

Commissario, non legato però al fenomeno corruzione, ma chiamato a gestire, già dal governo Monti, l’emergenza economica legata alla crisi è anche il “commissario unico” per la spending review.

La figura del commissario, quale organo con poteri straordinari e chiamato a gestire le “emergenze”, pare essere quindi una costante che va dal governo Monti a quello di Renzi.

 

 

 

La terza Repubblica tra partitismo e bipolarismo – di Giampiero Calia

Novembre ’15 

 

I casi (rispettivamente nazionale e locale) delle riforme costituzionali (e non) e della nomina di Matera a capitale europea della cultura, denotano che coalizioni di “grandi intese” sono probabilmente più idonee a gestire cambiamenti “epocali”. D’altronde, a livello nazionale, sta succedendo che il Partito democratico, a guida Renzi, sia un partito di sinistra che non attua però politiche ideologiche (ed è per questo che c’è chi paventa che Renzi stia spostando l’asse della politica del pd a destra, in riferimento anche agli appoggi di varie e diverse formazioni di derivazione moderata e/o conservatrice). Tutto questo in un contesto di riforme in corso che portano ad un “premierato” di fatto. Laddove, invece, la ricerca di un bipolarismo durato oltre vent’anni ha portato in realtà ad un “tripolarismo” (con parte di un elettorato tradizionalmente sia di sinistra che di destra in realtà confluito nella novità politica di questi anni: il m5s).

Le elezioni comunali materane, invece, a livello locale (soprattutto regionale) hanno aperto un varco nel consolidato sistema di potere del pd lucano. La partita di Matera 2019, del resto, è molto importante ed era inevitabile che si generassero frizioni e frazioni. Un sistema di potere che rappresenta una vera e propria milizia armata del pd nazionale, con personaggi come Gianni Pittella o Roberto Speranza e che ha “regnato”, praticamente incontrastato (tra Regione, Province e Comuni), per circa vent’anni.

I vari Filippo Bubbico, Salvatore Adduce o Vito De Filippo, a prescindere da una valutazione sulla loro capacità amministrativa-gestionale, devono la loro “fortuna” proprio a quel contesto, ossia alla logica del “ventennio”, dentro le dinamiche di un soggetto politico quale l’Ulivo di “prodiana” memoria (insomma “bersaniani” o dalemiani” piuttosto che “renziani”: sarà anche per questo che il presidente del Consiglio non ha appoggiato apertamente la candidatura di Adduce alle scorse elezioni amministrative?).

Personaggi nuovi, invece, di rottura (“rottamatori”, per intenderci)  rispetto agli schemi del ventennio “berlusconiano” non se ne vedono. L’unico meccanismo di rottura che c’è stato è proprio quello delle elezioni comunali materane, vinte anche con il contributo di liste con “fuoriusciti” pd.

Insomma se c’è chi paventa (riportando anche su autorevoli quotidiani nazionali) che Renzi stia spostando l’asse della politica del pd a destra  (e ciò può essere anche possibile considerato il compito del segretario del pd di governare una nazione) e se mai il pd avesse mai avuto una politica di sinistra (basti pensare solo alle riforme di scuola e lavoro operate durante i governi D’Alema, oppure alle “lenzuolate” di Bersani), in tal caso, però, la responsabilità di una mancata politica di sinistra è proprio di quei soggetti che piuttosto che urlare e affiancarsi in battaglie parlamentari con Forza Italia e Lega, ancora non hanno trovato la quadra di un “nuovo” socialismo. Ciò che invece è successo, in contesti, però, completamente diversi,  in Grecia con Tsipras o in Spagna con il movimento di Podemos.

Il “laboratorio politico” delle elezioni amministrative 2015. – di Giampiero Calia

Giugno ’15

Proprio come ai tempi di Crispi: meglio il “trasformismo” della palude. Così succede a Matera che in ben tre liste della coalizione del candidato sindaco Raffaello De Ruggieri si siano candidati diversi ex consiglieri (e presentato un intero partito – il PSI -) di centrosinistra. Coalizione messa sù, è bene ricordarlo, dal movimento civico “Matera 2020”, un’associazione che ha espresso candidati e liste anche alle elezioni regionali delle Marche , con Marche 2020 (la coalizione guidata da Gian Mario Spacca che, non potendosi candidare per la terza volta con il centrosinistra – suo partito essendo il PD, si è presentato alla guida del movimento che però non ha superato il 14% dei voti). Un movimento a carattere nazionale, dunque (anche se al momento è un laboratorio politico, testato alle elezioni amministrative), che mette insieme forze “tradizionalmente” di centro destra, quelle che, probabilmente, si definiscono “moderate” (e che vogliono emanciparsi sia dal “ventennio” berlusconiano che dalla lega di Salvini). E’ in sostanza, dal punto di vista del posizionamento politico, l’attuale schieramento di Governo.