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La “partita” del Venezuela tra due “blocchi” geopolitici

Il Paese del Sudamerica è nel caos più profondo (sociale, economico e politico) dalla rielezione, nel maggio scorso, di Nicolàs Maduro alla presidenza della Repubblica. Elezioni che in molti (compresi alcuni Stati esteri) hanno criticato per le modalità con cui si sono svolte.

E da allora che nel Paese è scoppiata una rivolta con manifestazioni soffocate da una repressione (sia da parte dell’esercito, che di vere e proprie milizie private al soldo del Governo) che ha causato centinaia di vittime e migliaia di feriti, con diversi arresti di oppositori (politici, magistrati, giornalisti). Da più parti, insomma, sono state contestate violazioni di diritti umani.

Ed è anche scoppiata una crisi economica che ha messo il Paese in ginocchio: sono migliaia le persone in stato di vera e propria denutrizione, con un’inflazione parossistica che ha portato, ad esempio, il prezzo di una gazzosa al 12% di un salario minimo, con una moneta che è diventata ormai “carta straccia”. E dove, negli ultimi tempi, sono in milioni coloro i quali sono fuggiti attraverso il confine con la Colombia (è qui che “stazionano”, in attesa di una soluzione alla crisi, anche gli aiuti umanitari – viveri e medicinali).

Solo da qualche mese, però, con la comparsa sulla scena di Juan Guaidò la situazione è al centro di un dibattito mondiale che vede schierati, da una parte, gli Stati Uniti, la Francia la Germania e l’UE (con la sola posizione “contraddittoria” dell’Italia: il 31 gennaio, infatti, lega e m5s al Parlamento europeo si sono astenuti, mentre la Commissione europea non ha potuto prendere posizione ufficiale proprio per via del “veto” italiano), dall’altra Cuba, Russia, Turchia, Iran e Cina.

Guaidò è presidente dell’assemblea nazionale dal 5 gennaio 2019, autoproclamatosi presidente della Repubblica ad interim il 23 gennaio (così come prevede un articolo della Costituzione venezuelana). Da più parti si invocano nuove elezioni per sciogliere il “nodo” venezuelano: per Guidò e per i Paesi che lo sostengono si tratterebbe di elezioni presidenziali anticipate per risolvere la grave crisi, soprattutto economica, del Paese; per Maduro, invece, si tratterebbe di eleggere  il solo organo in mano all’opposizione, il Tribunale supremo di Giustizia.

Un nodo che è cominciato con la fase “post-chavista” di Maduro e che ora vede stagliarsi sul Paese l’ombra degli Stati Uniti. Un’ombra che in molti considerano necessaria ma che rievoca (proprio in Sud America) operazioni (come quelle degli anni ’70 in Cile o in Argentina) di matrice imperialista. Soprattutto perché il Venezuela ha una delle più grandi riserve petrolifere mondiali (un petrolio, quello c.d. “extrapesante”,  che però molti analisti non considerano una risorsa davvero preziosa) e il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha già avviato, di fatto, “sanzioni finanziarie” nei confronti di Maduro, estromettendolo (e riconoscendo al suo posto Guaidò) dalle attività finanziarie venezuelane (soprattutto quelle della compagnia petrolifera nazionale, la PDVSA) nelle banche statunitensi. Ecco perché, da quest’ultimo punto di vista, i Paesi storicamente o commercialmente ostili agli Stati Uniti hanno tacciato Trump di ingerenza.  

 Un Paese, il Venezuela, in cui, è bene ricordare, risiedono circa 130.000 italiani e di cui circa tre milioni sono gli abitanti di origine italiana.

Solo di recente, infine, si registra una fuoriuscita di esponenti si spicco dell’esercito che riconoscono Guaidò come presidente.

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